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dai GIORNALI di OGGI

Violante e la trattativa:

"Ciancimino voleva parlarmi"

Caltanissetta e Palermo al lavoro su stragi e intrecci mafia-Stato. Oggi Riina interrogato dai pm

2009-07-24

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CORRIERE della SERA

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2009-07-24

Violante e la trattativa:

"Ciancimino voleva parlarmi"

Caltanissetta e Palermo al lavoro su stragi e intrecci mafia-Stato. Oggi Riina interrogato dai pm

Dal nostro inviato Giovanni Bianconi

PALERMO — Nel tentativo di ricostruire la presunta tratta­tiva tra mafia e Stato dopo le stragi del 1992, i magistrati di Palermo sistemano un tassello del mosaico che potrebbe ri­scontrare le dichiarazioni di Massimo Ciancimino, il figlio dell’ex sindaco Vito Ciancimi­no avvicinato dai carabinieri per tentare di fermare la strate­gia delle bombe avviata da To­tò Riina e arrivare alla cattura del boss.

Tassello fornito da Lu­ciano Violante, all’epoca depu­tato del Pds e dal settembre ’92 presidente della commissione parlamentare antimafia. In quella veste - quindi in autun­no, prima di dicembre quando Ciancimino fu arrestato per scontare la condanna definiti­va che lo bollava come mafio­so - fu avvisato dal colonnello Mario Mari, vice-comandante del Ros, che l’ex sindaco vole­va incontrarlo. Violante spiegò che se era in­teressato a parlare alla commis­sione, Ciancimino doveva pre­sentare una formale istanza scritta che l’organismo parla­mentare avrebbe valutato. Mo­ri tornò da "don Vito" e riferì la risposta, ma quello ribatté che non era interessato a un’audizione. Voleva parlare con Violante in via diretta e ri­servata. Un incontro non istitu­zionale, quindi, che Violante ­informato della precisazione ­rifiutò.

Questo il racconto dell’uo­mo politico reso ieri al procura­tore aggiunto di Palermo Anto­nio Ingroia e al sostituto Rober­to Scarpinato, titolari dell’inda­gine su contatti ed eventuali collusioni tra esponenti delle istituzioni e "uomini d’onore" ai tempi dell’offensiva terrori­stica di Cosa Nostra. Una testi­monianza sollecitata dallo stes­so Violante, dopo aver letto sui giornali le ultime dichiarazioni di Massimo Ciancimino a pro­posito delle mosse di suo pa­dre con i carabinieri. L’ex sindaco, ha raccontato il figlio, pretendeva che dietro gli ufficiali dell’Arma ci fosse una "copertura politica" com­pleta: a livello ministeriale (il giovane Ciancimino la fa arri­vare direttamente a Nicola Mancino, titolare del Vimina­le dal 1˚ luglio ’92) ma anche di opposizione. Quindi Violan­te. Che però, secondo quanto riferì "don Vito", alla fine non fu informato del "patto" che lui intendeva stringere con lo Stato per collaborare. Eviden­temente perché l’incontro ri­chiesto non ci fu. I magistrati di Palermo stan­no cercando conferme alle de­posizioni di Ciancimino jr, e la testimonianza dell’ex presi­dente dell’Antimafia si inseri­sce in questo lavoro.

Tuttavia il fulcro di ciò che il figlio del­l’ex sindaco sta dicendo da mesi in verbali e interviste co­stellate di versioni a volte di­verse, annunci e rinvii, resta l’archivio di carte e registrazio­ni di Ciancimino padre. Che il testimone nonché condanna­to in primo grado per riciclag­gio dice di avere ma non ha an­cora consegnato agli inquiren­ti. Lì ci sarebbe anche il fami­gerato papello con le richieste della mafia allo Stato, che le ri­costruzioni di questi anni vo­gliono dettato da Riina in per­sona. Qualche giorno fa, il "capo dei capi" della mafia ha manda­to a dire attraverso il suo avvo­cato, Luca Cianferoni, che col papello non ha nulla a che ve­dere e che i responsabili della morte del giudice Borsellino ­trucidato 57 giorni dopo Gio­vanni Falcone - vanno ricerca­ti tra coloro che fecero la cosid­detta trattativa, "di cui io sono stato oggetto, non soggetto". Oggi, nel carcere milanese di Opera dov'è rinchiuso, Totò Ri­ina sarà interrogato dai procu­ratori di Caltanissetta titolari delle inchieste ancora aperte sulle stragi che uccisero Falco­ne e Borsellino.

 

24 luglio 2009

 

REPUBBLICA

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2009-07-24

L'ex presidente dell'Anti-mafia rifiutò l'incontro. Nell'inchiesta

sulla "trattativa" indagati Riina e il suo medico Cinà

Patto mafia-Stato, Violante dai pm

"Mori mi disse: Ciancimino vuol parlarle"

di SALVO PALAZZOLO

Patto mafia-Stato, Violante dai pm "Mori mi disse: Ciancimino vuol parlarle"

Luciano Violante

PALERMO - Arrivano i primi riscontri al racconto di Massimo Ciancimino sulla trattativa fra Cosa Nostra e pezzi delle istituzioni durante la stagione delle stragi del 1992. Il figlio dell'ex sindaco aveva parlato di "garanzie politiche" chieste da suo padre al colonnello Mario Mori: "Della trattativa doveva essere informato il presidente della commissione antimafia Luciano Violante. Un altro misterioso interlocutore aveva invece detto che il ministro Mancino già sapeva".

Queste rivelazioni di Massimo Ciancimino sono apparse nei giorni scorsi sui giornali. Dopo averle lette, Violante ha contattato i magistrati di Palermo, chiedendo di essere ascoltato. Ieri mattina, davanti al procuratore aggiunto Antonio Ingroia e al sostituto Roberto Scarpinato, ha spiegato che per davvero qualcuno gli chiese di incontrare "in modo riservato, a quattr'occhi" Vito Ciancimino. La proposta arrivò da Mario Mori subito dopo la sua nomina all'Antimafia, nel settembre 1992. Violante ha messo a verbale di aver rifiutato qualsiasi contatto con il sindaco boss.

È questa l'ultima novità nell'inchiesta sulla trattativa, che al momento è ritornata ad avere come indagati Totò Riina e il suo medico Antonino Cinà.

Nessuno, prima di Massimo Ciancimino, aveva mai parlato delle "garanzie Mancino e Violante" chieste da don Vito per portare avanti la trattativa con gli ufficiali del Ros. Non ne aveva fatto cenno Vito Ciancimino, quando nel 1993 aveva raccontato al procuratore Caselli alcuni passaggi dei suoi rapporti con i carabinieri. Di garanzie politiche non ha mai parlato neanche il generale Mori, poi diventato capo del Sisde e oggi consulente per la Sicurezza del Comune di Roma mentre è imputato a Palermo per la mancata cattura del latitante Provenzano. Mori e il capitano Giuseppe De Donno sono stati sempre categorici: "Parlammo con Ciancimino solo per indurlo alla collaborazione". I carabinieri negano di aver mai preso in consegna il "papello" con le richieste di Riina e di averlo girato nei palazzi delle istituzioni.

Ma le ombre sono rimaste. Sul reale contenuto del dialogo fra Ciancimino e gli ufficiali del Ros, sugli altri protagonisti ancora senza nome, e soprattutto sui tempi della trattativa. Mori sostiene di aver incontrato Ciancimino dopo la strage Borsellino, prima ci sarebbero stati solo dei contatti preliminari fra De Donno e Massimo Ciancimino. Ma il giovane Ciancimino smentisce e riempie quei mesi di particolari. Un pool di magistrati, che comprende anche Nino Di Matteo e Paolo Guido, sta cercando riscontri al fiume di dichiarazioni. Ciancimino, si ribadisce in Procura, non è un collaboratore. Resta un imputato, condannato per riciclaggio, che si difende.

(24 luglio 2009)

 

 

 

 

 

Sull'ex capo dei Ros anche sospetti per la latitanza di Provenzano

Mori ammette di aver incontrato Ciancimino "dopo le stragi in Sicilia"

Dalla "svista" su Riina a don Vito

i misteri del generale-negoziatore

Ciancimino jr: no, lo vide tra Capaci e via D'Amelio. La villa dove era stato

catturato "zio Totò" fu lasciata incustodita: altri mafiosi entrarono indisturbati e la "ripulirono"

di ATTILIO BOLZONI

Dalla "svista" su Riina a don Vito i misteri del generale-negoziatore

Mario Mori, generale dei carabinieri

ROMA - Tutto cominciò a puzzare di patti e di ricatti dentro a quella villa di Palermo, ultima residenza conosciuta di Salvatore Riina detto "Curto" o anche "zio Totò", capo dei capi di Cosa Nostra catturato dopo ventiquattro anni e sette mesi di indisturbata latitanza. Su tutto ciò che è avvenuto dopo ha sempre pesato quella "ipoteca": la mancata perquisizione del covo del mafioso di Corleone. La "trattativa" era iniziata da almeno sei o sette mesi e quel giorno - il 15 gennaio 1993 - presero il boss e lasciarono "a posto" tutto il resto. Le carte che Totò Riina aveva in custodia, la sua cassaforte, i suoi segreti. Probabilmente il più feroce dei corleonesi fu venduto da qualcuno. In cambio di una nuova "politica" di Cosa Nostra. In cambio di una pace con lo Stato italiano dopo Capaci, dopo Paolo Borsellino e prima delle bombe in Continente.

Tutto cominciò a ingarbugliarsi in quel covo dei misteri, controllato sulla carta ma in realtà abbandonato poche ore dopo l'arresto dello "zio Totò". Tutto cominciò con una "operazione sbirresca" contrabbandata come "più grande successo antimafia" dopo le stragi siciliane del 1992. "Il fatto non costituisce reato", hanno scritto i giudici della III sezione del tribunale di Palermo assolvendo il colonnello Mario Mori - allora vice comandante dei reparti speciali dei carabinieri e poi nominato capo del servizio segreto civile nel terzo governo Berlusconi - e il famosissimo capitano Ultimo per l'accusa di avere favorito Cosa Nostra. Avevano intrappolato Totò Riina, avevano giurato di "tenere sotto controllo" la villa e invece se n'erano andati. Quattro o cinque ore dopo avevano smontato le telecamere intorno al covo di via Bernini, avevano assicurato al procuratore Caselli che erano ancora lì, ma per diciannove giorni la villa fu un porto di mare. Entrarono tre o quattro mafiosi che - sereni e tranquilli - lo ripulirono. Perché andarono così le cose?

"Una dimenticanza", disse il colonnello. Fu smentito clamorosamente dal "diario" di un procuratore aggiunto, che aveva preso nota di tutti i suoi rapporti in quei diciannove giorni di falso controllo del covo. Perché si comportarono così quei carabinieri? Le motivazioni della sentenza di assoluzione sono contraddittorie. Da una parte dicono: "Se la cattura fosse stato il frutto di un accordo con lo Stato, tramite il quale era stata siglata una sorta di pax capace di garantire la restituzione e il ripristino della vita democratica sconquassata dagli attentati, e a Cosa Nostra la prosecuzione dei propri affari, sotto una nuova gestione latu sensu moderata, non si comprenderebbe perché l'associazione criminale abbia invece voluto proseguire con le eclatanti azioni delittuose, colpendo i simboli storico-artistici, culturali e sociali dello Stato". Dall'altra parte dicono i giudici: "L'imputato Mori pose in essere un'iniziativa spregiudicata che, nell'intento di scompaginare le file di Cosa Nostra ed acquisire utili informazioni, sortì invece due effetti diversi ed opposti: da una parte la collaborazione del Ciancimino che chiese di poter visionare le mappe della zona Uditore dove si sarebbe trovato il Riina...; dall'altra la "devastante" consapevolezza che le stragi effettivamente "pagassero" e lo Stato fosse ormai in ginocchio, pronto ad addivenire a patti". Assolti ma con riserva per via di una "serie concatenata di omissioni", assolti anche se "non è stato possibile accertare la causale delle condotte degli imputati".

Poi è arrivato il pentito Giovanni Brusca a raccontare che il colonnello Mori, nel frattempo diventato generale, aveva trattato con la mafia. Al processo in Firenze, quello delle stragi in continente, udienza dopo udienza si parlò del famigerato "papello". Il generale ha sempre negato di averlo visto, pur confermando di avere incontrato in quell'estate l'ex sindaco mafioso Vito Ciancimino per "negoziare" con i boss. Quando? "Dopo le stragi in Sicilia", ha ammesso Mori. "Non è vero, è stato tra Capaci e via D'Amelio", ha rivelato alla fine del 2008 Massimo Ciancimino ai procuratori palermitani Antonio Ingroia e Nino Di Matteo. Uno sfasamento di tempi che ha fatto riaprire un'indagine nell'indagine.

Dal covo mai perquisito ai faccia a faccia con don Vito fino all'ultimo giallo: la latitanza infinita di Bernardo Provenzano. E' un altro degli affaire che è finito dentro alle inchieste di questi mesi sulla trattativa e sulle stragi. C'è già un processo in corso e l'imputato "per avere favorito Cosa nostra" è sempre lui: il generale Mario Mori. Secondo la denuncia di un suo vecchio collega, il colonnello Michele Riccio, in sostanza Mori non avrebbe voluto arrestare Provenzano che allora era ricercato da 32 anni. Riccio denuncia Mori, Mori denuncia Riccio: i magistrati palermitani hanno creduto al primo e mandato a giudizio il secondo. La testimonianza di Michele Riccio al processo: "Il mio confidente Luigi Lardo mi aveva avvertito telefonicamente di un suo incontro con Bernardo Provenzano. Lo dissi a Mori, ma non mostrò alcun cenno di interesse".

(24 luglio 2009)

 

 

 

Il figlio dell'ex Dc, condannato per mafia, testimonia al processo Dell'Utri

Il senatore del Pdl sarebbe il mediatore tra il Capo di Cosa Nostra e il premier

Ciancimino, "Il boss Provenzano

scrisse a Silvio Berlusconi"

Ciancimino, "Il boss Provenzano scrisse a Silvio Berlusconi"

Sarebbe stato inviato dal boss Bernardo Provenzano il messaggio che aveva come destinatario finale Silvio Berlusconi: è quanto emerge dall'interrogatorio di Massimo Ciancimino, depositato stamani nel processo in Corte d'Appello in cui è imputato il senatore Marcello Dell'Utri (Pdl), accusato di concorso esterno in associazione mafiosa.

Il messaggio cui fa riferimento Ciancimino, figlio di Vito, ex Dc condannato per mafia, è quello trovato scritto in una lettera sequestrata nel 2005 tra le carte del padre, e scoperta solo adesso dai pm della procura di Palermo. Nella missiva si fa riferimento "all'onorevole Berlusconi" e ad una minaccia che gli sarebbe stata rivolta nel caso in cui non avesse messo a disposizione una delle sue reti televisive. Nel messaggio, scritto a mano, si fa anche riferimento a un "contributo" politico che l'autore della missiva avrebbe dato.

La lettera sarebbe stata consegnata a Massimo Ciancimino da Pino Lipari, uomo di fiducia di Bernardo Provenzano. Il messaggio, secondo quanto racconta il figlio dell'ex sindaco di Palermo, lo avrebbe ricevuto nella villa a San Vito Lo Capo di proprietà di Lipari, e in quella occasione sarebbe stato presente anche Provenzano.

Massimo Ciancimino non ricorda con precisione la data in cui avvenne la consegna. Ma sottolinea, invece, che il messaggio era completo, cioè non era tagliato nella prima parte così com'è stato trovato dai carabinieri durante una perquisizione. Il foglio di carta, infatti, è strappato a metà e in questo modo i pm lo hanno mostrato a Ciancimino.

Sono due i verbali depositati stamani dalla Procura Generale e sono datati 30 giugno e 1 luglio. Secondo quanto sostiene Massimo Ciancimino, il senatore Dell'Utri, che avrebbe dovuto girare il messaggio a Berlusconi, sarebbe stato il mediatore.

(10 luglio 2009

 

 

 

Dopo diciassette anni di silenzio totale parla il boss di Corleone

E sulla strage di via d'Amelio accusa i servizi e lo Stato

Riina sul delitto Borsellino

"L'hanno ammazzato loro"

di ATTILIO BOLZONI, FRANCESCO VIVIANO

Riina sul delitto Borsellino "L'hanno ammazzato loro"

Paolo Borsellino

TOTÒ RIINA, l'uomo delle stragi mafiose, per la prima volta parla delle stragi mafiose. Sull'uccisione di Paolo Borsellino dice: "L'ammazzarono loro". E poi - riferendosi agli uomini dello Stato - aggiunge: "Non guardate sempre e solo me, guardatevi dentro anche voi". Dopo diciassette anni di silenzio totale il capo dei capi di Cosa Nostra esce allo scoperto.

Riina lo fa ad appena due giorni dalla svolta delle indagini sui massacri siciliani - il patto fra cosche e servizi segreti che i magistrati della procura di Caltanissetta stanno esplorando. Ha incaricato il suo avvocato di far sapere all'esterno quale è il suo pensiero sugli attentati avvenuti in Sicilia nel 1992, su quelli avvenuti in Italia nel 1993. Una mossa a sorpresa del vecchio Padrino di Corleone che non aveva mai aperto bocca su niente e nessuno fin dal giorno della sua cattura, il 15 gennaio del 1993. Un'"uscita" clamorosa sull'affaire stragi, che da certi indizi non sembrano più solo di mafia ma anche di Stato.

Ecco quello che ci ha raccontato ieri sera l'avvocato Luca Cianferoni, fiorentino, da dodici anni legale di Totò Riina, da quando il più spietato mafioso della storia di Cosa Nostra è imputato non solo per Capaci e via Mariano D'Amelio, ma anche per le bombe di Firenze, Milano e Roma.

Avvocato, quali sono le esatte parole pronunciate da Totò Riina? Sono proprio queste: "L'ammazzarono loro"?

"Sì, sono andato a trovarlo al carcere di Opera questa mattina e l'ho trovato che stava leggendo alcuni giornali. Neanche ho fatto in tempo a salutarlo e lui, alludendo al caso Borsellino, mi ha detto quelle parole... L'ammazzarono loro...".

E poi, che altro ha le ha detto Totò Riina?

"Mi ha dato incarico di far sapere fuori, senza messaggi e senza segnali da decifrare, cosa pensa. Lui è stato molto chiaro. Mi ha detto: "Avvocato, dico questo senza chiedere niente, non rivendico niente, non voglio trovare mediazioni con nessuno, non voglio che si pensi ad altro". Insomma, il mio cliente sa che starà in carcere e non vuole niente. Ha solo manifestato il suo pensiero sulla vicenda stragi".

Ma Totò Riina è stato condannato in Cassazione per l'omicidio di Borsellino, per l'omicidio di Falcone, per le stragi in Continente e per decine di altri delitti: che interesse ha a dire soltanto adesso quello che ha detto?

"Io mi limito a riportare le sue parole come mi ha chiesto. Mi ha ripetuto più volte: avvocato parlo sapendo bene che la mia situazione processuale nell'inchiesta Borsellino non cambierà, fra l'altro adesso c'è anche Gaspare Spatuzza che sta collaborando con i magistrati quindi...".

Le ha raccontato altro?

"Abbiamo parlato della trattativa. Riina sostiene che è stato oggetto e non soggetto di quella trattativa di cui tanto si è discusso in questi anni. Lui sostiene che la trattativa è passata sopra di lui, che l'ha fatta Vito Ciancimino per conto suo e per i suoi affari e insieme ai carabinieri: e che lui, Totò Riina, era al di fuori. Non a caso io, come suo difensore, proprio al processo per le stragi di Firenze già quattro anni fa ho chiesto che venisse ascoltato Massimo Ciancimino in aula proprio sulla trattativa. Riina voleva che Ciancimino deponesse, purtroppo la Corte ha respinto la mia istanza".

E poi, che altro le ha detto Totò Riina nel carcere di Opera?

"E' tornato a parlare della vicenda Mancino, come aveva fatto nell'udienza del 24 gennaio 1998. Sempre al processo di Firenze, quel giorno Riina chiese alla Corte di chiedere a Mancino, ai tempi del suo arresto ministro dell'Interno, come fosse a conoscenza - una settimana prima - della sua cattura".

E questo cosa significa, avvocato?

"Significa che per lui sono invenzioni tutte quelle voci secondo le quali sarebbe stato venduto dall'altro boss di Corleone, Bernardo Provenzano. Come suo difensore, ho chiesto al processo di Firenze di sentire come testimone il senatore Mancino, ma la Corte ha respinto anche quest'altra istanza".

Le ha mai detto qualcosa, il suo cliente, sui servizi segreti?

"Spesso, molto spesso mi ha parlato della vicenda di quelli che stavano al castello Utvegio, su a Montepellegrino. Leggendo e rileggendo le carte processuali mi ha trasmesso le sue perplessità, mi ha detto che non ha mai capito perché, dopo l'esplosione dell'autobomba che ha ucciso il procuratore Borsellino, sia sparito tutto il traffico telefonico in entrata e in uscita da Castel Utvegio".

Insomma, Totò Riina in sostanza cosa pensa delle stragi?

"Pensa che la sua posizione rimarrà quella che è e che è sempre stata, non si sposterà di un millimetro. Ma questa mattina ha voluto dire anche il resto. E cioè: non guardate solo me, guardatevi dentro anche voi".

(19 luglio 2009)

 

 

 

Ripartono le indagini sulle stragi di mafia. Sullo sfondo dell'intrigo

gli 007: uno di loro era presente in parecchi luoghi dove esplosero le bombe

Falcone e Borsellino, inchieste riaperte

caccia ad un agente segreto sfregiato

dal nostro inviato ATTILIO BOLZONI

Falcone e Borsellino, inchieste riaperte caccia ad un agente segreto sfregiato

La strage di Capaci

CALTANISSETTA - Nessuno conosce il suo nome. Tutti dicono però che ha "una faccia da mostro". è un agente dei servizi di sicurezza. Lo cercano per scoprire cosa c'entra lui e cosa c'entrano altri uomini degli apparati dello Stato nelle stragi e nei delitti eccellenti di Palermo.

Diciassette anni dopo si sta riscrivendo la storia degli attentati mafiosi che hanno fatto tremare l'Italia. Ci sono testimoni che parlano di altri mandanti, ci sono indizi che portano alla ragionevole convinzione che non sia stata solo la mafia a uccidere Falcone e Borsellino o a mettere bombe. É stata ufficialmente riaperta l'inchiesta su via Mariano D'Amelio. É stata ufficialmente riaperta l'inchiesta su Capaci. É stata ufficialmente riaperta anche l'inchiesta sull'Addaura, su quei cinquantotto candelotti di dinamite piazzati nel giugno dell'89 nella scogliera davanti alla casa di Giovanni Falcone. Una trama. Una sorta di "strategia della tensione" - questa l'ipotesi dei procuratori di Caltanissetta titolari delle inchieste sulle stragi palermitane - che parte dagli anni precedenti all'estate del 1992 e finisce con i morti dei Georgofili a Firenze e quegli altri di via Palestro a Milano.

Gli elementi raccolti in questi ultimi mesi fanno prendere forma a una vicenda che non è circoscritta solo e soltanto a Totò Riina e ai suoi Corleonesi, tutti condannati all'ergastolo come esecutori e mandanti di quelle stragi. C'è qualcosa di molto più contorto e di oscuro, ci sono ricorrenti "presenze" - indagine dopo indagine - di agenti segreti sempre a contatto con i boss palermitani. Tutti a scambiarsi di volta in volta informazioni e favori, tutti insieme sui luoghi di una strage o di un omicidio, tutti a proteggersi gli uni con gli altri come in un patto di sangue.

I procuratori di Caltanissetta - sono cinque che indagano, il capo Sergio Lari, gli aggiunti Domenico Gozzo e Amedeo Bertone, i sostituti Nicolò Marino e Stefano Luciani - hanno già ascoltato Vincenzo Scotti (ministro degli Interni fra il 1990 e il 1992) e l'allora presidente del Consiglio (dal giugno 1992 all'aprile 1993) Giuliano Amato per avere anche informazioni che nessuno aveva mai cercato. Su alcuni 007. Primo fra tutti quell'agente con la "faccia da mostro".

É uno dei protagonisti dell'intrigo. Un'ombra, una figura sempre vicino e intorno a tanti episodi di sangue. Il suo nome è ancora sconosciuto, di lui sa soltanto che ha un viso deformato. In tanti ne hanno parlato, ma nonostante quella malformazione - segno evidente per un facile riconoscimento - nessuno l'ha mai identificato. Chi è? Gli stanno dando la caccia. Sembra l'uomo chiave di molti misteri palermitani.

Il primo: l'attentato del 21 giugno del 1989 all'Addaura. C'è la testimonianza di una donna che ha visto quell'uomo "con quella faccia così brutta" vicino alla villa del giudice Falcone, poco prima che qualcuno piazzasse una borsa sugli scogli con dentro la dinamite. Qualcuno? Sull'Addaura c'è a verbale anche il racconto di Angelo Fontana, un pentito della "famiglia" dell'Acquasanta, cioè quella che comanda in quel territorio. Fontana rivela in sostanza che i mafiosi dell'Acquasanta quel giorno si limitarono a "sorvegliare" la zona mentre su un gommone - e a bordo non c'erano i mafiosi dell'Acquasanta - stavano portando i cinquantotto candelotti sugli scogli di fronte alla casa di Falcone.

Un piccolo "malacarne" della borgata - tale Francesco Paolo Gaeta - assistette casualmente alle "operazioni". Fu ucciso a colpi di pistola qualche tempo dopo: il caso fu archiviato come un regolamento di conti fra spacciatori. Dopo il fallito attentato, a Palermo fecero circolare le solite voci infami: "É stato Falcone a mettersi da solo l'esplosivo". Il giudice, molto turbato, disse soltanto: "Sono state menti raffinatissime". Già allora, lo stesso Falcone aveva il sospetto che qualcuno, dentro gli apparati, volesse ucciderlo.

Ma l'uomo con "la faccia da mostro" fu avvistato anche in un altro angolo di Palermo, un paio di mesi dopo. Un'altra testimonianza. Confidò il mafioso Luigi Ilardo al colonnello dei carabinieri Michele Riccio: "Noi sapevamo che c'era un agente a Palermo che faceva cose strane e si trovava sempre in posti strani. Aveva la faccia da mostro. Siamo venuti a sapere che era anche nei pressi di Villagrazia quando uccisero il poliziotto Agostino".

Nino Agostino, ufficialmente agente del commissariato San Lorenzo ma in realtà "cacciatore" di latitanti, fu ammazzato insieme alla moglie Ida Castellucci il 5 agosto del 1989. Mai scoperti i suoi assassini. Come non scoprirono mai come un amico di Agostino, il collaboratore del Sisde Emanuele Piazza (anche lui cacciatore di latitanti) fu strangolato dai boss di San Lorenzo. Una soffiata, probabilmente. Il confidente Ilardo ha parlato anche di lui. E poi ha raccontato: "Io non so per quale ragione i servizi segreti partecipavano a queste azioni... forse per coprire determinati uomini politici che avevano interesse a coprire determinati fatti che erano successi, mettendo fuori gioco magistrati o altri uomini politici che volevano far scoprire tutte queste magagne". Un'altra testimonianza ancora viene da Vincenzo Agostino, il padre del poliziotto ucciso: "Poco prima dell'omicidio di mio figlio vennero a casa mia a Villagrazia di Carini due uomini che si presentarono come colleghi di Nino, uno aveva un viso orribile...".

L'ultimo a parlare dell'agente segreto con "la faccia da mostro" è stato Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito, sindaco mafioso di Palermo negli anni '70. Ai procuratori siciliani ha spiegato che quell'uomo era in contatto con suo padre da anni. Fino alla famosa "trattativa", fino a quell'accordo che Totò Riina voleva raggiungere con lo Stato italiano per "fermare le stragi". Un baratto. Basta bombe se aboliscono il carcere duro e cancellano la legge sui pentiti, basta bombe se salvano patrimoni mafiosi e magari decidono la revisione del maxi processo.

Ma Massimo Ciancimino non ha rivelato solo gli incontri di suo padre con l'agente dal viso sfigurato. Ha parlato anche di un certo "signor Franco" e di un certo "Carlo". Forse non sono due uomini ma uno solo: un altro agente dei servizi. Uno con il quale il vecchio don Vito aveva un'intensità di rapporti lontana nel tempo. "Fu lui - sono parole di Ciancimino jr - a garantire mio padre, rassicurandolo che dietro le trattattive, inizialmente avviate dal colonnello dei carabinieri Mario Mori e dal capitano Giuseppe De Donno, c'era un personaggio politico". Di questo "signor Franco" o "Carlo", Massimo Ciancimino ha fornito ai procuratori indicazioni precise. E anche un'agenda del padre con i loro riferimenti telefonici.

Un ultimo capitolo di questi intrecci fra mafia e apparati è affiorato dalle ultime indagini sull'uccisione di Paolo Borsellino. Un pentito (Gaspare Spatuzza) ha smentito il pentito (Vincenzo Scarantino) che 17 anni fa si era autoaccusato di avere portato in via D'Amelio l'autobomba che ha ucciso il procuratore e cinque poliziotti della sua scorta. "Sono stato io, non lui", ha spiegato Spatuzza, confermando comunque in ogni dettaglio la dinamica dei fatti e svelando che Falcone - prima di Capaci - sarebbe dovuto morire a Roma in un agguato. Le armi, fucili e pistole, a Roma le aveva portate lui stesso. Dopo un anno di indagini i magistrati di Caltanissetta hanno accertato che Gaspare Spatuzza ha detto il vero e Vincenzo Scarantino aveva mentito. Si era inventato tutto. Qualcuno lo aveva "imbeccato". Chi? "Qualcuno gli ha messo in bocca quelle cose per allontanare sospetti su altri mandanti non mafiosi", risponde oggi chi indaga sulla strage.

Un depistaggio con frammenti di verità. Agenti segreti e scorrerie in Sicilia. Poliziotti caduti, omicidi di inspiegabile matrice. Boss e spie che camminano a braccetto. Attentati, uno dopo l'altro: prima Falcone e cinquantaquattro giorni dopo Borsellino. Una cosa fuori da ogni logica mafiosa. La tragedia di Palermo non sembra più solo il romanzo nero di Totò Riina e dei suoi Corleonesi.

(17 luglio 2009)

 

 

 

Massimo, detto "Nano", è custode di molti segreti del padre. Minacciato, ha lasciato la Sicilia

Metà procura gli crede, l'altra metà diffida. La prefettura gli ha negato la scorta

Da viveur a testimone di giustizia

il figlio di don Vito fa tremare Palermo

di ATTILIO BOLZONI

Da viveur a testimone di giustizia il figlio di don Vito fa tremare Palermo

Vito Ciancimino (a sinistra) con il figlio Massimo

Il più scapestrato e il più chiacchierone dei cinque figli a quanto pare era l'unico che custodiva i segreti di papà. Quello che a Palermo chiamavano "Nano" per la sua statura, quello che a Palermo non ci va più perché ha paura. Vent'anni fa suo padre, don Vito, veniva per la prima volta incastrato da Falcone per appalti di acqua e di gas. Vent'anni dopo, "Nano" incastra gli altri.

Definire Massimo Ciancimino pentito non è tecnicamente corretto, dire che è solo testimone è troppo poco. Il fatto piuttosto è un altro: "Nano" sta parlando. Da mesi e su tutto. Affari, riciclaggio, uomini politici (quasi) insospettabili, incontri segreti fra boss e imprenditori, alti ufficiali dei carabinieri che hanno mercanteggiato con mafiosi, trattative fra Stato e Cosa Nostra prima e dopo e durante le stragi del 1992.

La dolce vita del golden boy di casa Ciancimino è diventata così l'esistenza molto complicata - pensate solo al nome che porta - di un ex eterno ragazzo abituato a viaggiare intorno al mondo con i tantissimi soldi che suo padre aveva rastrellato nella sua spericolata carriera di padrone della Dc palermitana. Ma la "roba" accumulata dall'ex sindaco Ciancimino non era solo "roba" di Ciancimino. Nano sta parlando e mezza Palermo trema.

Lui adesso in Sicilia non ci può più andare. Da quando un motociclista l'ha seguito da Punta Raisi fino sotto la sua bella casa in una traversa di via Libertà. Da quando due falsi poliziotti l'hanno svegliato - era l'alba del 12 dicembre del 2008 - e poi ha trovato sulla porta una bombola di gas propano e una siringa piena di benzina. Avvertimenti. Minacce che puzzano poco di mafia e tanto di quel mondo che "Nano" sta scoperchiando grazie ai resoconti di suo padre don Vito, uno che è stato sindaco di Palermo per undici giorni ma che ha avuto in mano la città per quasi trent'anni.

Metà procura di Palermo gli crede ("È un testimone chiave"), l'altra metà diffida ("È socialmente pericoloso"), la prefettura gli ha negato la scorta, così "Nano" non scende più in Sicilia e - per motivi di sicurezza - il prossimo 23 marzo i giudici della Corte di Appello voleranno a Bologna ad ascoltarlo. L'udienza si preannuncia incandescente.

È proprio a Bologna che da qualche mese vive il piccolo Ciancimino. Dove ha sposato Carlotta, bella ragazza figlia di un famoso chirurgo. Ed è a Bologna che i pm che credono fortemente nelle ricostruzioni di "Nano" (il procuratore aggiunto Antonio Ingroia e il sostituto Nino Di Matteo) lo vanno a prendere a verbale ogni settimana. Quello che era per tutti soltanto il rampollo viziato con la passione per le Ferrari e le feste a Cortina e i "piccioli", ai due magistrati sta svelando dettagli non proprio irrilevanti sulla stagione delle stragi. Ha cominciato con la famosa trattativa fra suo padre il generale Mario Mori, ex comandante dei Ros dei carabinieri e poi del servizio segreto interno. Ha continuato con la storia del "papello", le richieste scritte che Totò Riina avrebbe avanzato allo Stato italiano per fermare le bombe. Ha fatto nomi di personaggi che gli investigatori ignoravano. Ha riferito di incontri fra il padre e Bernardo Provenzano. Molti dei suoi interrogatori sono stati secretati e trasmessi alla procura della repubblica di Caltanissetta, quella che indaga ancora sulle stragi palermitane e i "mandanti altri" di Capaci e di via D'Amelio.

Sarà davvero "Nano" a portare i magistrati dell'antimafia sulla strada della verità? O li porterà soltanto dove vorrà lui? Il personaggio è controverso, lo descrive bene Leo Sisti nella premessa del suo libro - L'isola del tesoro - sulla politica e gli affari dei Ciancimino. Nano, ad esempio, è uno che con candore dice anche questo: "L'unica cosa che mi ha trasmesso mio padre è la correttezza".

(14 marzo 2009)

 

 

Nuovi indagati a Palermo, inchiesta più ampia di quella che portò alle archiviazioni

La misteriosa trattativa tra la "cupola" e uomini delle istituzioni

Patto mafia-servizi, inchiesta riaperta

"Intermediario americano per Totò Riina"

di SALVO PALAZZOLO

Patto mafia-servizi, inchiesta riaperta "Intermediario americano per Totò Riina"

Il pm Antonio Ingroia

PALERMO - Le ultime richieste sono state girate ai vertici dei servizi segreti, su alcuni 007. "Voglia la Signoria Vostra illustrare le mansioni svolte nell'ambito della struttura palermitana dell'intelligence da...". I pm Nino Di Matteo e Antonio Ingroia, gli stessi che hanno portato a processo l'ex capo del Sisde Mario Mori per favoreggiamento a Cosa nostra, hanno riaperto l'inchiesta sulla misteriosa trattativa che vide protagonista la cupola mafiosa e alcuni uomini delle istituzioni.

Adesso, l'indagine sarebbe molto più ampia di quella che nel 2004 era stata chiusa con un'archiviazione per Totò Riina, il suo medico Antonino Cinà e l'ex sindaco Vito Ciancimino. Erano accusati di aver "veicolato" un "papello" di richieste per far cessare le stragi. Ora, l'indagine cerca oltre, perché la trattativa sarebbe iniziata molti mesi prima della stagione degli eccidi Falcone e Borsellino, e sarebbe proseguita anche oltre. Secondo i pm di Palermo, uno degli "effetti" del presunto (e raggiunto) patto sarebbe stata la mancata cattura di Provenzano nel 1995 da parte del Ros di Mario Mori, che con Ciancimino aveva iniziato a dialogare. Ecco perché le risultanze dell'ultima inchiesta potrebbero finire presto anche al processo Mori.

Intanto, ci sarebbero già dei nuovi indagati per la trattativa, al vaglio della Procura diretta da Messineo. Il filone principale che viene approfondito è quello dei rapporti fra boss e uomini dei servizi. Dalla vecchia inchiesta i magistrati hanno poi ripreso il giallo della trattativa americana di Riina. A parlarne era stato Paolo Bellini, ex estremista di destra che ai processi per le stragi aveva svelato le confidenze di uno degli assassini di Falcone, Nino Gioè, morto suicida in carcere. "Riina aveva un ulteriore canale per cercare di ottenere benefici - questa la confidenza - era una trattativa triangolare, fra Italia e Usa, nel senso che Cosa nostra aveva dei tramiti oltreoceano per una trattativa da condurre in porto con ambienti italiani".

Chissà se il misterioso intermediario è l'avvocato americano arrivato in Sicilia poco prima delle stragi. Ne ha parlato il pentito Giuffrè. Lui sa poco, solo che qualche mafioso aveva il compito di andarlo a prendere nel lussuoso albergo di Villa Igiea.

(22 luglio 2009)

 

 

 

 

Ieri su Repubblica aveva spiegato di avere il "papello" di Riina

sulle condizioni poste dalla mafia per fermare le stragi

Ciancimino jr.: "Ho tutte le carte

che spiegano il patto mafia-Stato"

"Appena possibile darò il materiale i magistrati che mi interrogano da un anno

ma ci sono altri documenti. Sono altri che si devono pentire..."

di ATTILIO BOLZONI e FRANCESCO VIVIANO

Ciancimino jr.: "Ho tutte le carte che spiegano il patto mafia-Stato"

Massimo Ciancimino

PALERMO - Conferma che consegnerà il "papello" di Totò Riina, racconta di un dossier di don Vito con la dicitura "Carabinieri", svela che tutte le carte segrete erano conservate in una cassaforte della sua villa di Mondello e che "stranamente" alcuni ufficiali dell'Arma non l'aprirono. E poi ricorda di "alti magistrati che incontravano mio padre e Salvo Lima per aggiustare processi". Parla Massimo Ciancimino, il figlio dell'ex sindaco mafioso, il testimone che con le sue verità sta facendo tremare Palermo.

Quando si libererà di quell'"atto" - il papello - con il quale il capo dei capi della mafia di Corleone nell'estate del 1992 stava ricattando lo Stato?

"Al più presto, appena possibile lo darò ai magistrati palermitani che mi stanno interrogando da un anno. Ma non consegnerò solo il papello, ci sono altri documenti di mio padre... gli servivano per un libro che non ha mai scritto".

Dov'erano e dove sono custodite tutte queste carte di suo padre, compreso il papello?

"Adesso sono in un luogo sicuro, fino a quattro anni fa erano nella cassaforte della mia casa a Mondello. I carabinieri un giorno fecero una perquisizione - io ero a Parigi, volevo prendere il primo aereo per Palermo e presentarmi ma loro mi dissero che non c'era bisogno - però non aprirono la cassaforte. Non so perché. Eppure era ben visibile, era nella stanza della tata del mio bambino. Quel giorno aprirono la cassaforte nella casa del professore Giovanni Lapis, il commercialista di mio padre che era stato indagato con me. Ma stranamente non la mia".

Lei sta raccontando tanto dal giugno del 2008, si sente un pentito?

"Io non mi devo pentire di niente, sono altri che devono farlo. Io sto semplicemente cercando di ricostruire certe vicende. E lo farò con la documentazione, non soltanto a parole. Lo farò anche con il papello".

Chi dovrebbe pentirsi?

"Alcune persone... i loro nomi li ho già fatti ai magistrati e tutto è stato secretato. C'è stato uno strabismo investigativo... ne ho parlato con i magistrati Ingroia e Di Matteo: si è voluto guardare solo da una parte".

Cosa ha svelato ai magistrati in questi ultimi mesi?

"Ho parlato degli incontri di Bernardo Provenzano con mio padre. E poi ho parlato della famosa trattativa fra Stato e Mafia: ho messo a verbale che anch'io, direttamente, ho partecipato con mio padre alla cattura di Totò Riina nel 1993. Lo stesso Riina deve avere saputo qualcosa attraverso i suoi canali, durante un'udienza infatti ha detto che era stato "venduto" dal figlio di Ciancimino...".

In quell'occasione Riina fece anche il nome dell'allora ministro degli Interni, Nicola Mancino: cosa c'entra in questa vicenda?

"Ho parlato del senatore Mancino con i magistrati di Caltanissetta, ma non posso dire nulla di più".

Con chi trattò suo padre per la cattura di Riina?

"Con il colonnello Mori e con il capitano De Donno, ma mio padre non si fidava di loro, erano sì influenti ma lui - che non era certo un deficiente - cercò di capire chi ci fosse sopra. Fu un certo 'signor Franco', un agente dei servizi segreti, a dire a mio padre che dietro c'era un personaggio politico".

Perché Ciancimino non si fidava dei due ufficiali dell'Arma?

"Non si fidava molto dei carabinieri perché una loro inchiesta, quella su mafia e appalti, era stata abilmente occultata da esponenti politici e da magistrati vicini a mio padre. Per questo cercava altre garanzie in quella trattativa pericolossima".

Chi erano questi politici e questi magistrati?

"Ai procuratori ho raccontato di summit fra mio padre, l'onorevole Salvo Lima e l'onorevole Mario D'Acquisto con alcuni procuratori e giudici di Palermo - che ormai sono in pensione - con i quali tutti insieme studiavano i piani per favorire certi uomini politici e i loro amici".

(15 luglio 2009)

 

 

 

 

 

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